NORMOTECH

04/04/2016

2302022001POS

LO SCAPOLARE

THE SCAPULAR

Racconto di

Bernabè Giovanni Stefano

Story of

Bernabè Giovanni Stefano

12/03/2010

 

Eravamo vicino alla Pasqua che quell’anno cadeva nel mese di Aprile. La bella giornata primaverile mi spinse ad uscire di casa subito dopo la colazione. Avevo trascorso la notte a impastare e infornare pagnotte fino alle sei di mattina, poi dopo aver fatto pulizia ero tornato a casa, dove mia madre con un perfetto tempismo, mi aveva fatto trovare sul tavolo di cucina una tazza di caffelatte fumante. Lei si era alzata presto per sbrigare le faccende domestiche, dare a me la colazione e subito dopo uscire; sarebbe andata a servizio a casa del medico condotto. Avvertivo la stanchezza accumulata nella notte, ma mi sentivo allegro e non avevo voglia di coricarmi subito; il liquido caldo con la pagnotta che ci inzuppai dentro erano stati sufficienti a ridarmi il vigore per decidere di andare a spasso.

Da noi, la guerra era praticamente finita anche se non ufficialmente, nella nostra zona da qualche tempo era tutto calmo, però in giro c’era tanta miseria, se non avevi un pezzo d’orto con una vigna o qualche bestia tipo suini, ovini, caprini o bovini facevi solo la fame. Tanta gente se n’era andata dal paese; se non da militare era scappata da emigrante. Nonostante fare il panettiere fosse abbastanza faticoso, sentivo comunque di essere un privilegiato ad avere un lavoro. Tra l’altro producevo cibo, ché perciò non mi mancava mai. Di sicuro, a casa mia, di fame non si sarebbe morti.

Per strada non c’era quasi nessuno. Respirai a pieni polmoni l’aria ancora fresca del mattino. Mi avviai verso il lungomare al centro del paese, scesi nella spiaggia deserta e mi sedetti sulla sabbia, chiusi gli occhi con il viso rivolto verso il sole che si alzava velocemente. Pensai che, passati che fossero ancora un paio di mesi, poi sarebbe stato già tempo di bagni.

Mi prese il sonno così. Mi appisolai con la testa sulle ginocchia, qualche minuto, poi mi alzai e decisi di tornare verso casa, se dovevo dormire sarebbe stato meglio sul mio letto. Per strada però incontrai Antonino alla fermata della corriera:

“Oh! Giovanni” mi apostrofò, “ dove te ne vai?”

“Mah!” risposi, “ho fatto due passi e adesso vado a coricarmi”, sapeva benissimo che avevo passato la notte al forno.

Antonino aveva pressappoco la mia età, e lo conoscevo bene perché talvolta veniva al forno ad aiutarci con la legna e le fascine. Anche lui senza un mestiere preciso, campava prestandosi a fare lavoretti vari per questo e per quello nel paese, ma soprattutto vendeva pesci nel circondario, infatti la sua specialità era quella di pescatore; sì pescatore, però di frodo. In parole povere faceva il bombarolo, e perciò in modo discontinuo e di nascosto, cioè tempo e giustizia permettendo. Era questa una attività purtroppo abbastanza pericolosa e soprattutto fuorilegge che consisteva nel far esplodere un ordigno ad una certa profondità, in una zona di mare nota per la sua pescosità, ed attendere poi che i pesci di specie varia, tramortiti dalla pressione esercitata dall’esplosione, risalivano a galla a pelo d’acqua. A quel punto il grosso del lavoro era fatto e non restava altro che raccogliere con relativa facilità ogni tipo di pesce che si fosse trovato per sua disgrazia, nel raggio d’azione dell’esplosione: in genere di una decina di metri.

“Sto aspettando la corriera” mi spiegò, e soggiunse “Perché non te ne vieni con me?”,

“E dove mi vuoi portare?” chiesi stupito; guardai l’orologio del campanile, la corriera che stava aspettando sarebbe giunta di lì a poco.

“Vado in città a fare una commissione, se mi accompagni mi fai un piacere”, mi disse con aria interrogativa ma con tono persuasivo, e subito dopo, vedendomi titubante, aggiunse:

“Il biglietto te lo pago io!”.

Antonino non aveva mai una lira in tasca e quell’ultima precisazione del biglietto mi convinse di quanto importante fosse per lui la mia compagnia. La città a cui si riferiva Antonino era il capoluogo della provincia e distava una quindicina di chilometri che la corriera con una decina di fermate, percorreva in non meno tempo di trenta, quaranta minuti. Inoltre in verità non avevo niente di preciso da fare, l’unica alternativa che avevo per la mattinata era di andarmene a letto; però pensai che una passeggiata nel capoluogo, anche così per cambiare un po’ aria, per vedere altra gente, non mi dispiaceva, anzi decisi che tutto sommato, ci sarei andato volentieri.

“Va bene, ti accompagno” acconsentii.

Assieme al riconoscente sorriso di Antonino arrivò pure la corriera e così con la polvere dello stradone che si era trascinata dietro salimmo nell’abitacolo deserto. Vi trovammo un bigliettaio annoiato che meccanicamente strappò due biglietti, senza neppure guardarci in faccia, come fossimo due seccatori, prese i soldi di Antonino e pose il resto sul ripiano, distrattamente. Io, pur avendo notato fin dal primo momento il cestino di vimini che Antonino aveva posato a terra mentre aspettava l’arrivo della corriera, non vi avevo prestato particolare attenzione; adesso però che mi accorgevo dello sguardo divenuto insistente e impiccione del bigliettaio ficcanaso, diretto al cestino, soltanto adesso dicevo, fui curioso di sapere anch’io cosa contenesse. Ma per impedire assolutamente che lo capisse anche il bigliettaio trascinai Antonino il più avanti possibile, fino presso l’autista.

Un canovaccio bianco a righe azzurre incrociate copriva il contenuto del cestino impedendone la vista.

“Ma, cosa c’hai dentro il cestino?”, chiesi a bassa voce.

Antonino pur stupito dal riserbo con cui lo domandai, rispose pure lui sottovoce, avvicinandosi al mio orecchio:

“Pesci!” mi rivelò. Lo guardai stupito; lui sollevò un angolo del canovaccio che nascondeva almeno tre chili di pesci di tre o quattro qualità diverse: tra cui tre o quattro naselli, tre o quattro sgombri e un paio di orate.

“Pesci? E dove li portiamo?”, chiesi sempre più incuriosito. Andare in città apposta per un cestino di pesci? In città non c’erano forse pescherie? E perché mi aveva chiesto così caldamente di accompagnarlo? Ma, mi venne il dubbio che forse non andava semplicemente a vendere pesci.

“Li portiamo a Prete Paolo” rispose e poi a conferma dei miei dubbi precisò “vado a farmi fare uno scapolare!”.

Dovete sapere che dalle nostre parti, oggi non più ma un tempo, usava farsi fare da un sacerdote una specie di talismano, che la credenza religiosa riteneva capace di virtù magiche contro il male, la scarogna e tutti i demoni oltre a essere capace di aiutare la persona nei suoi affari. Da noi questa specie di portafortuna si chiamava appunto: scapolare.

Proprio così, l’indumento che fa parte dell’abito religioso indossato dai monaci e che ha funzione di prova di spiritualità mariana, testimone di devozione e di fede, segno di salvezza e protezione, pur assomigliandogli nel fine, poco aveva a che fare con questo oggetto, che invece, abusivamente e piuttosto profanamente se ne era accaparrato il nome.

Antonino, notando la mia aria sorpresa, volle giustificarsi:

“Mia madre ha tanto insistito che non ho potuto più rifiutarmi!”. La scusa non mi convinse granché. Ero sicuro che aveva deciso da solo di rivolgersi a Prete Paolo, famoso nella zona per questo genere di esercizi scaramantici. Era stata certamente una sua scelta: evidentemente credeva a quel genere di amuleto, e in verità dire che lui ne avesse un gran bisogno, è dire poco. Volevo sapere se ci fosse e quale fosse una ragione precisa per la quale avesse deciso di rivolgersi all’aiuto del prete, ma mi riservai di domandarglielo in seguito.

Prete Paolo era noto per essere uno di quei preti che amavano molto stare vicini ai parrocchiani, soprattutto ai più benestanti, dai quali ovviamente ricevevano il trattamento di riguardo di cui loro avevano bisogno e che giustamente andava riconosciuto ai reverendi ministri della chiesa, i quali altrimenti coglievano ogni occasione per capitare all’ora di pranzo presso le famiglie più osservanti e generose, dove la mensa essendo più ricca e caritatevolmente sostanziosa, veniva loro gentilmente offerta e da loro garbatamente accettata, con generale soddisfazione. Prete Paolo pur appartenendo a questa specie di canonico, per forza di cose opportunista raffinato, non disprezzava tuttavia le varie donazioni in natura che provenivano da chiunque del popolino si compiacesse di offrirgliene, anzi era pronto a prestare il proprio ufficio contraccambiando con profonde assoluzioni e benedizioni.

Purtroppo però, come in alcune occasioni fu inteso lamentarsi: da quando aveva ricevuto il galero, il cappello prelatizio nero a larghe tese con tre fiocchi e relative nappe rosse, molto più raramente riceveva degli omaggi spontanei dai parrocchiani, e se ne lamentava con rimpianto:

“Da quando mi hanno messo questi benedetti ravanelli non vedo più nessuna opera di beneficenza!”, diceva scrollando con le dita le nappe rosse.

Più tardi, a metà della corsa decisi di voler sapere, così indagai:

“Ma cosa vuoi pretendere da questo scapolare?”.

“Voglio chiedere a Prete Paolo di farmi avere la fortuna di pescare tanto pesce!”. Quella risposta mi lasciò di sasso. Possibile che davvero Antonino credeva che la sua pesca e la quantità di pesce pescato potesse essere influenzata da un amuleto? Possibile che Prete Paolo avrebbe esaudito davvero alla sua richiesta? Divenni ancora più desideroso di assistere alla composizione di questo particolare rito di genere misto tra il magico e il religioso.

Dopo più di una buona mezzora di curve e controcurve arrivammo in città. Scendemmo al capolinea nella piazza principale dove già c’erano gruppi di persone che discutevano dei loro affari: ma che immaginai da perdigiorno, vista la generale disoccupazione. Attraversammo la piazza con passo tranquillo, il prete aveva fatto sapere ad Antonino che lo avrebbe ricevuto solo dopo le dieci, non prima. Essendo le dieci meno un quarto avevamo tutto il tempo, dovevamo percorrere a piedi non più di cinque minuti di strada. Raggiunta la piazzetta dove si trovava la chiesa ci dirigemmo a colpo sicuro alla porta della attigua canonica.

La perpetua venne ad aprire dopo che Antonino ebbe bussato energicamente un paio di volte, era una persona anziana un po’ ricurva che, dopo aver lanciato uno sguardo furtivo al cestino di Antonino, ci disse che il parroco era in chiesa per dei lavori di manutenzione che si stavano facendo. Le dicemmo che saremmo andati a cercarlo.

“Quella è la sorella del prete” mi informò Antonino.

Ci avviammo pertanto dentro la chiesa dove trovammo Prete Paolo che ai piedi di una impalcatura sulla quale stavano appollaiati un paio di operai, era impegnato, imprecando in dialetto, in una accesa discussione con loro. Immaginai subito che forse non avrebbe avuto tempo per noi, invece appena ci vide ci venne incontro sorridendo.

Il prete era in borghese, nel senso che non aveva la toga nera, dati i tempi duri che si stava attraversando immaginai che l’abito talare doveva essere risparmiato per i servizi religiosi: al suo posto vestiva un paio di calzonacci militari e una camicia grigioverdi, e ai piedi un paio di scarponi pure d’ordinanza.

Appena si accorse di noi concluse il predicozzo tecnico che aveva in corso con i due muratori, abbandonò loro e l'impalcatura e, dopo aver buttato anche lui un occhio al cestino forse presumendone il contenuto, ci salutò.

“Eh! Sei venuto!?, disse dando la mano ad Antonino e poi a me mentre gli venivo presentato:

“Stamani mi sono deciso, e ho portato con me questo mio amico, Giovanni, per farmi compagnia”.

“Hai fatto bene!”, approvò il prete poi, avviandosi verso l’uscita della chiesa, ci esortò: ”Venite! Andiamo in canonica che facciamo quello che si deve fare!” disse.

Antonino richiamò l’attenzione del prete sul cestino, e mentre lo porgeva gli disse:

“Vi ho portato un pensiero, Prete Paolo”. Il prete alzò il lembo del canovaccio, guardò di cosa si trattava fingendo un'aria distratta, e sorrise:

“Hai fatto molto bene!” confermò, lasciando il cestino nelle mani di Antonino.

Usciti dalla chiesa percorremmo in fila i pochi metri che ci separavano dalla canonica. Il prete aprì il portoncino ed entrammo uno dietro l’altro.

Una volta entrati ci invitò ad accomodarci in una stanza:

“Accomodatevi, mi lavo le mani e vengo” ci disse. La perpetua ci venne incontro, fu lei a indicarci due sedie presso un ampio tavolo di legno lucido che immaginai fare le veci di una scrivania. Una vecchia poltroncina con braccioli dall’imbottitura sdrucita stava dal lato opposto del tavolo, sopra al quale oltre ad una lampada a petrolio, un calamaio con portapenne, un astuccio in legno con penne e matite, vi erano adagiati alcuni libri e un paio di quaderni di cui uno aperto pieno di numeri, da un lato del tavolo un vassoio con dentro un tagliacarte, un paio di forbici, un righello.

Addossata alla parete alle nostre spalle una specie di credenza fungeva da libreria, scaffale, dispensa e ripostiglio, conteneva un po’ di tutto alla rinfusa: libri, giornali, cestini, vasi, bottiglie varie, scatole e scatolette, ma sopra il tetto del mobile trovava posto d’onore in appetitosa esibizione, una fila di forme di formaggio, di varie misure, età e qualità.

Il prete ci raggiunse subito, si sedette davanti a noi, chiuse il quaderno, e apostrofò Antonino:

“Allora Tonino, veniamo a noi. Dimmi esattamente di cosa hai bisogno!?”. Per l’assenza dei preamboli nei quali avevo immaginato Tonino avesse dovuto perdersi per spiegare la sua visita al prete, mi fu facile capire che evidentemente l’incontro era stato pianificato chissà da chi, in precedenza.

Antonino un po’ imbarazzato dal timore di chiedere troppo al buon prete, cercò di cincischiare, chiamò a raccolta tutte le possibili ragioni di questa sua esigenza, la salute, la fortuna, lo scampo dalle invidie, dalla giustizia, dai pericoli, ma alla fine dichiarò che soprattutto aveva bisogno di pescare tanto, ma tanto pesce.

Mentre Antonino si sfiancava nel trovare la formula e le parole per rendere più comprensibile che poteva, l’esposizione dei suoi maggiori desideri, io facevo uno sforzo immenso per evitare di scoppiare a ridere, soprattutto nel notare quanto il prete si sforzasse di dare l’impressione di ascoltarlo con la più grande serietà, mentre ne ero certo, stava anche lui, in cuor suo, sbellicandosi dal ridere. Il mio sguardo perciò non sapeva su chi dei due posarsi, passava dal viso attento del malizioso prete a quello ingenuo del sempliciotto Antonino e viceversa; sbalordito e quasi incredulo di assistere ad una rappresentazione che lo confesso, trovavo tanto comica quanto rattristante e poco gradevole.

“Prete Paolo” concluse Antonino, “solo voi potete aiutarmi, è per questo che mi sono deciso, ho preso l’ultimo pescato e mi sono detto: questo è per Prete Paolo! Ed eccomi qui!”

Alla fine il prete si decise ad interromperlo, secondo me falsamente compiacente:

“Hai fatto benissimo!” riconobbe per la terza volta, e aggiunse assecondandolo: ”Va bene! Ora vedremo di fare qualcosa per le tue esigenze!”.

Mentre mi chiedevo se davvero il religioso sapesse di quale tipo fosse l’arte della pesca esercitata da Tonino, e se fosse giusto assecondare, e anzi indurre, con il sacro o la magia che fosse, l’efficienza di quell’attività già di per sé proibita dalla legge, e mi rispondevo che tra il sacro e il profano non si potevano fare paragoni di qualità morale, Prete Paolo fece spazio, con studiata cura, sul ripiano del tavolo davanti a sé.

Poi si rivolse a me che lo guardavo con un mezzo sorriso forzato e forse poco ossequioso, ma solo a causa del rispetto per la carica più che per la persona, in quanto nel mio intimo non riuscivo a condividere assolutamente ciò che stava accadendo; soprattutto non gradivo l’aria complice con la quale il prete si rivolgeva a me. Tuttavia non seppi reagire come avrei voluto allo sleale e coinvolgente uso che fece del dialetto, e con il quale disse:

“Anzi già che ci siamo faremo un bello scapolare anche per il tuo amico Giovanni! Per la tutela della sua felicità e della sua salute”, mi guardò, ma senza strizzarmi l’occhio come, lo giuro, mi aspettavo stesse per fare. In quel momento mi convinsi che non lo aveva fatto solo perché anche Antonino lo stava osservando attentamente.

Detto questo si accinse ad esaudire il suo desiderio: aprì il cassetto centrale del tavolo scrittoio e ne estrasse una busta di colore arancione e la posò davanti a se, poi chiamò Pina la sorella perpetua che all’istante si affacciò sull’uscio, il prete le chiese di portare alcune foglie verdi di palma da benedire. Stava per prendere inizio il cerimoniale; ogni parola e ogni azione del prete richiamava la nostra silenziosa e curiosa attenzione.

La perpetua fu subito di ritorno con le foglie di palma. Prete Paolo ne prese due e da ciascuna ne tagliò quattro pezzetti di circa quattro centimetri l’uno, poi prese i pezzetti nelle mani e chiese a noi di aprire le braccia con le palme delle mani aperte rivolte in alto e di abbassare il capo.

Quando tutti e tre fummo nella corretta posizione, lui iniziò una litania di preghiere in latino e sospiri in dialetto, come se il compiere quel rito comportasse per lui una qualche forma intrinseca di sofferenza, che noi non avremmo mai neppure potuto immaginare.

Il cerimoniale, che temevo interminabile, si concluse con un corale e stimolato “Amen”, a quattro voci, si perché, presi dalla profondità della funzione non c’eravamo accorti che anche la sorella perpetua Pina incapace di resistervi, non aveva saputo rinunciare a partecipare a quella inconsueta benedizione evocativa di foglie di palma. Dopodiché Prete Paolo prese le forbici e tagliò in due la metà inferiore della busta, formando due taschine rettangolari, e dentro ognuna di esse inserì i quattro pezzetti benedetti e presumibili futuri benefattori, di foglia di palma verde. Poi consegnandoci l’oggetto consacrato appena predisposto, ci raccomandò con grande enfasi, di conservarlo sopra di noi con massima cura e devozione. Antonino e per forza di cose e per imitazione, io stesso, quasi ci prostrammo in un caloroso ringraziamento per quella cerimonia che Prete Paolo aveva appena compiuto per noi.

Finalmente, ero contento che tutto fosse finito. Così mentre ci alzavamo, forse a causa dell’ora che nel frattempo avevamo fatto e della tensione sofferta durante l’esecuzione di quello strano rito, un certo languore allo stomaco mi spinse a guardare la fila delle formaggette delle quali non mi ero dimenticato. Proprio nel momento in cui Prete Paolo diceva:

“Adesso, vista l’ora Pina ci preparerà qualcosa da mangiare, andiamo in cucina e ci sediamo al tavolino, vanno bene due spaghetti al burro? Che ne dite?”. La perpetua appena intese queste parole, sgattaiolò difilato in cucina, mentre il fratello rivoltosi poi a me, quasi che avesse capito i miei desideri, ordinò:

“Giovanni, sali sulla sedia e prendi una formaggetta,ti piace con i vermi?”, l’espressione che lesse sul mio viso fu sufficiente a fargli capire che: si, mi piaceva. Guardò Tonino e vide che stava ingoiando l’acquolina che gli si era formata in bocca e capì, quindi deciso disse:

“Allora tira giù la seconda da sinistra!”, obbedii volentieri.

Con la forma di formaggio tra le mani ci avviammo in cucina, ci sedemmo al tavolino già coperto della tovaglia, con un fiasco di vino sopra, tre bicchieri e tre piatti, pane e posate. Mentre gli spaghetti erano in cottura la perpetua Pina terminò di imbandire la tavola con salame, lardo, olive, sardine e carciofi sottolio. Non pareva neppure di essere ancora in tempo di guerra: in quella casa non mancava nulla di ciò che noi al paese potevamo solo desiderare.

Sinceramente, devo confessare che non mi aspettavo questo invito, e questa cortesia. Addirittura riuscii a pensare che quel furbo di tre cotte di un prete avesse organizzato lo spuntino per non farsi dire dietro forse da me che in fin dei conti ero a lui sconosciuto, quanto non avessi gradito tutta quella spettacolare messinscena a danno dei pesci, e rendendomi in tal modo complice involontario del festino che ne stava seguendo. Forse per la mia giovane età, incapace di scontrarmi apertamente con una autorità intellettuale che riconoscevo superiore alla mia, non ebbi però il coraggio di oppormi; e fu così che senza dar soverchio peso ai miei pur onesti dubbi e riflessivi sentimenti, da buona pecora di secondo livello, seguii il pastore che avevo trovato sul mio cammino. Assieme ai miei compari feci così un paio d’ore di bisboccia: spaghetti, pane, formaggio, salumi, pomodori, tutto il bendiddio sulla tavola e tanto, tanto vino e tante storielle e battute in allegria.

Ci lasciammo come dei gran compagnoni, promettendoci altri incontri dello stesso genere, che però non ebbero mai più occasione di ripetersi.

Per il viaggio di ritorno la corriera impiegò lo stesso identico tempo dell’andata, ma a causa dei fumi alcolici di cui ero invaso fu da me percepito, come almeno il doppio più veloce.

Giunti al paese Tonino che reggeva le bevande alcoliche molto meglio di me, mi disse che avevo dormito durante tutto il tragitto. Infatti mi sentivo un po’ più cosciente di quando eravamo partiti.

A casa mia madre mi domandò dove fossi andato a finire e se avevo pranzato, la tranquillizzai e la informai dello spuntino, le descrissi per filo e per segno quanto avevamo mangiato e bevuto, le raccontai della divertente compagnia di Prete Paolo e di tutta la faccenda dello scapolare. Mia madre quando glielo mostrai mi disse che era un oggetto molto importante e che visto che ne ero entrato in possesso dovevo assolutamente rispettarlo religiosamente.

Non volli contraddirla, anche perché ero morto dal sonno, per cui la salutai e mi coricai.

Verso sera mi svegliai e ancora mezzo assonnato andai in cucina dove mia madre stava lavorando a maglia vicino al camino.

“Cambiati la maglia della pelle”, mi disse categorica, “mettiti quella che è pronta!”, indicava una maglia a mezze maniche di cotone grezzo sulla spalliera di una seggiola. Pur senza comprendere quell’urgenza presi la maglia. Sul petto a sinistra portava una taschina cucita con uno scampolo di pelle leggera. Con chissà quale grande riguardo vi aveva riposto dentro lo scapolare benedetto di foglie di palma verde in busta arancione, che per non farle dispiacere fui costretto a portare per circa sei mesi, e che forse fu da li in poi garante della mia già fortunata esistenza.