NORMOTECH

04/04/2016

2302020701POS

GIUVANIN VALENT

BRAVE LITTLE JOHNNY

Versione di

Bernabè Giovanni Stefano

Version of

Bernabè Giovanni Stefano

08/03/2010

 

C'era una volta, in un paese lontano lontano, un giovane di bell'aspetto e di belle speranze, ma povero in canna; viveva in una casupola con la sua mamma vedova e sognava come tutti i giovani di paese una vita serena, piacevole e tranquilla, aveva speranza anzi era certo che un giorno la fortuna si sarebbe rivolta anche verso di lui, e così tirava avanti tra casa e lavoro, e qualche festicciola di paese; lavorando, cantando e fischiettando.

Faceva il ciabattino e tutti lo chiamavano Giuvanin, il suo nome era anche scritto con il pennello sul muro accanto alla porta della sua piccola botteguccia piena di scarpe vecchie, stampi di legno, spezzoni di cuoio e scampoli di pelle, per le suole e le tomaie. Aveva imparato il mestiere dal suo babbo, e quando lui era morto la botteghina gli era rimasta in eredità. Ora ci si manteneva a malapena, lui e la sua mamma. Certo che vivevano di stenti, ma prima o poi sarebbe riuscito a conquistarsi una posizione prestigiosa.

Quando i paesani avevano bisogno di stivali e scarpe accomodate, vi lavorava di gran lena, allegro e scherzoso, e fischiettava tanto, ma capitava anche che durante le belle stagioni quasi tutti andavano scalzi o con zoccolacci di legno, e allora il lavoro scarseggiava. Ma non si lamentava, stava li seduto al desco ad osservare il volare e il posarsi delle mosche, oppure sognava facendo volare lui stesso un chissacchè e un chissaddove di pensieri, o altrimenti si sedeva sullo scranino al sole, fuori della bottega e chiacchierava del più e del meno con i compaesani che passavano di lì.

Una mattina, nonostante fosse ancora una bella e calda giornata di fine stagione, con le strade asciutte e la gente in giro scalza o con gli zoccoli, i paesani portarono al ciabattino un bel po' di lavoro da fare, forse in previsione del brutto tempo che sarebbe di certo arrivato di lì a poco. Trafficò due giorni con lesine, martelli, chiodi, colle, raspe, raschini, setole, resine, punzoni e altri strumenti ancora. Battendo, tagliando, tirando, incollando, cucendo e fischiettando.

Poco prima dell'imbrunire del secondo giorno era stanco, ma aveva quasi finito il lavoro della giornata, restavano poi da lucidare soltanto un paio di stivali.

Ma quelle mosche! L'avevano martoriato per tutto il giorno, non ne poteva più: il pennello, per potersi inzuppare dentro il padellino della colla, doveva farsi strada tra quegli insettacci fastidiosi, che se ne volevano abbeverare.

Basta! Diede l'ultimo colpo di martello sul paratacchi di uno scarpone, posò il martello e 'tump', colpì con una tal manata le mosche nel padellino che non si mossero più.

Poi una ad una le tirò fuori dalla colla, tutte morte e le contò: erano cento, cento mosche!

Forse domani saranno di meno a darmi noia, pensò. Si rallegrò di quella liberazione e con un po' di spavalderia pensò di far conoscere a tutti la sua prodezza.

Infatti la mattina seguente i paesani che passavano davanti la bottega del calzolaio, potevano leggere sul muro, nel dialetto locale, la scritta spavalda aggiunta a pennello:

GIUVANIN VALENT

CHE CON UNA MAN I N'AMAZ CENT

E SI L' MET TUT'E DOA VITA DAVANTI”

che stava come dire: (Giovannino Valente che con una mano ne ammazza cento e se le usa tutt'e due non c'è futuro per nessuno)

Chi passava di lì, si fermava leggeva e tirava dritto, a quei pochi che gli chiedevano spiegazioni, Giuvanin restava sul vago, ma precisava che era la pura verità, ma che non si trattava di cristiani.

Comunque vi fu chi confermò con certezza i fatti ed il numero delle vittime, per cui si diffuse tra la gente la convinzione di quanto grande fosse il suo coraggio e la sua prestanza.

I passanti si toglievano il cappello in segno di saluto passando veloci davanti alla porta aperta della bottega. Lui rispondeva al saluto e lasciò che l'impressione delle sue capacità e della sua forza dilagasse sempre di più nel circondario. Ma di certo non si aspettava che giungesse tanto lontano con il passaparola, e perfino alle orecchie di chi viveva nelle terre che aldilà del fiume si perdevano a vista d'occhio nella vallata.

E tantomeno poteva credere che se ne occupasse l'Orco, il signore e padrone della maggior parte di quelle terre, tutte ben tenute e coltivate; stiamo parlando di un essere bruto, dall'aspetto spaventevole, corpulento, irsuto, forzuto, barbuto e panciuto, che girava per le sue terre armato di un pesante bastone con il quale opprimeva i suoi braccianti al lavoro.

Questo Orco viveva in un palazzotto sulla collina al centro delle sue terre, lo serviva una vecchia megera dall'aspetto non dissimile a quello del suo padrone, sempre sporca e puzzolente, brutta, stracciona, scarmigliata e bitorzoluta; essa gli faceva da mangiare, gli cucinava quello che lui portava a casa, e si diceva in giro che a volte sulla mensa non mancavano teneri tocchi di giovani cristiani cotti a puntino con le patate. Nei suoi campi lavoravano tutto il giorno dei poveri contadini schiavizzati. Con le loro famiglie vivevano minacciati dalla prepotenza di quel mostruoso padrone, che quando era il momento del raccolto li teneva costantemente d'occhio per non farsi derubare, diceva lui; a fine raccolto, loro potevano tenere per sé solo una misera parte dei prodotti coltivati, il resto lo vendevano al mercato e i proventi li versavano all'Orco. Sicché si diceva in giro che oltre al palazzo sulla collina e alle proprietà terriere, l'Orco possedesse anche un gran tesoro di monete d'oro.

L'Orco non tollerava assolutamente che ci fosse in giro qualcuno che si dichiarasse più forte o più ricco di lui, a parte il Re, era come terrorizzato dal fatto che qualcuno potesse minacciare la sua supremazia su quelle terre ed il suo potere fino a quel momento incontrastato. Si diceva che dormisse con un occhio chiuso ed uno aperto per paura di essere assalito da qualche suo nemico malintenzionato.

Infatti quando giunse alle orecchie dell'Orco la notizia che lì vicino esisteva un antagonista alla sua forza, non volle por tempo in mezzo: subito volle sapere chi fosse e dove si trovasse. Così quando fu al corrente di cosa si trattava esattamente, non ci pensò nemmeno un secondo, chiamò uno dei suoi contadini e lo inviò come messaggero alla bottega del ciabattino.

Il contadino per voce dell'Orco, intimò a Giuvanin di presentarsi al più presto al suo palazzo, per rendere conto delle voci che giravano su di lui e che lui stesso aveva messo in giro.

Il contadino disse che non conosceva il motivo di quella intimazione, e Giuvanin gli chiese di accompagnarlo al cospetto dell'Orco e di rimanere assieme a lui.

L'Orco stava pranzando e quando entrarono nel salone, li invitò, con fare stranamente gentile, ad accomodarsi e a bere un bicchiere di vino. Poi disse a Giuvanin che giravano voci sulla sua grande forza, disse che lui si riteneva fino a quel momento il più forte in tutta la regione, che si doveva chiarire al più presto chi tra loro lo fosse davvero e che avrebbero dovuto misurarsi subito in una prova di forza per stabilirlo.

Giuvanin chiese all'Orco a che genere di prova di forza stava pensando, e lui gli rispose che lo sfidava ad abbattere dieci alberi della sua pineta presso il lago, in meno di un'ora, oppure a chi gettava più lontano una palla di ferro del suo cannone. A lui la scelta.

Giuvanin si mostrò d'accordo, ma chiese all'Orco quale sarebbe stata la posta in gioco, cosa ci avrebbe guadagnato lui nel prestarsi a quella prova di forza.

L'Orco diede un'occhiata alla serva che gli stava servendo un grosso tacchino arrosto con patate, e si fece una grossa risata: Ma come, gli chiese, non ti basta il fatto che non ti faccio cucinare allo spiedo dalla mia serva? dovresti accontentarti, secondo me!

Giuvanin diede un'occhiata al contadino, che era rimasto vicino a lui, e disse: Beh! Se ciò accadesse ci faresti una meschina figura!

E perchè? soggiunse l'Orco, tu sei in casa mia ed io sulle mie terre sono il padrone e signore! Io faccio ciò che mi pare!

Sarà pur vero, ribattè Giuvanin, ma devi sapere che venendo da te, al tuo palazzotto, ho chiesto ai tuoi contadini di spargere la voce che venivo a misurarmi con l'Orco e che se avesse vinto lui la sfida, avrebbe confermato la sua forza invincibile ed il suo potere su tutta la regione, ma se avessi vinto io l'Orco mi avrebbe consegnato tutti i suoi forzieri d'oro o tutte le sue proprietà. Poi ho ripetuto le stesse cose al Re che ho incontrato per strada sulla sua carrozza con la sua scorta. Sia i contadini sia il Re mi hanno augurato di uscire vincitore nella prova di forza, sarebbero felici se risultassi il vincitore. Anzi se vincerò io il Re ha precisato che vorrà più vederti su queste terre e inoltre mi ha chiesto di fare una grande festa a cui Lui stesso parteciperà volentieri assieme alla Regina ed alla Principessa.

L'Orco per poco non si strozzò, strabuzzò gli occhi e ingollò con fatica il boccone che stava masticando, e rosso dalla rabbia, disse: Brutto impudente! come hai potuto divulgare un simile accordo prima ancora di pattuirlo con me. Ma va bene lo stesso! Faremo la gara di forza. Non posso ritirarmi, visto che tutti ormai sono a conoscenza della sfida; ma siccome sarò io a vincere, dico che non mi basterà confermare la mia forza e il mio potere, ma farò ugualmente un banchetto e ti farò anche cucinare, come ti meriti, dalla mia serva.

Bene! Confermò Giuvanin, mi sembra che i premi si equivalgono, accetto la sfida! Cosa metti in palio? Domandò.

Come hai suggerito, nel caso inverosimile che tu vinca ti consegnerò i miei forzieri di monete d'oro. Disse l'Orco e aggiunse: Allora, quale prova vuoi fare? scegli tu!

Giuvanin ci pensò su, e sapendo che la prossima era una notte di luna piena, disse: Scelgo la prova degli alberi, ma la faremo domani mattina perché ormai s'è fatto buio. Quale attrezzo preferisci scure o sega? Li porterò io stesso!

Va bene, confermò l'Orco, io userò la scure! e aggiunse: Ci vediamo alla pineta domani mattina all'alba.

Tornando a casa Giuvanin ed il contadino incontrarono altri lavoranti dei campi e delle fattorie, e li misero al corrente di quanto era stato pattuito. Chiesero al Fattore di informare il Re della sfida che Giuvanin aveva lanciato e che l'Orco aveva accettato, e inoltre lo pregarono di invitarlo, Lui e la famiglia Reale, alla festa che, in caso di vittoria, Giuvanin avrebbe dato al palazzotto in collina che sarebbe divenuta la sua dimora.

Appena scesa la sera Giuvanin si recò alla pineta dell'Orco, e tra gli alberi di pino, al chiaro di luna, ne individuò dieci perfettamente allineati. Quindi si mise di gran lena a tagliarli, tagliò per poco più della metà del tronco, solo il primo lo tagliò quasi tutto tenendolo fermo con il cuneo di ferro. Impiegò per il lavoro più di sei ore, poi se ne tornò a letto soddisfatto, a riposarsi un po' della fatica.

L'indomani mattina all'alba, l'Orco tutto pimpante e sicuro del fatto suo si presentò alla pineta sul suo cavallo baio, ed ecco arrivare subito dopo Giuvanin che nascosto dietro una siepe aspettava il suo arrivo. Portava sulla spalla una mazza, la sega a tracolla e un cuneo di ferro in mano.

Salve Orco, disse Giuvanin, eccomi qua, purtroppo non ho trovato la scure, e quindi dovrai procurartela tu. Io intanto comincio a tagliare.

Va bene, osservò l'Orco, tornerò a prenderne una alla fattoria, ci vorranno cinque minuti!

Saltò sul cavallo e corse via. Mentre si allontanava Giuvanin, corse alla fila dei pini che aveva già tagliato, si avvicinò al primo con il cuneo già piantato e cominciò a battere con la mazza.

Aveva già dato al cuneo quattro o cinque mazzate, quando vide in lontananza la polvere che il cavallo dell'Orco sollevava nella corsa di ritorno. Ci mise tutta la forza che aveva, e con altri due colpi il legno del pino cominciò a scricchiolare. Pendeva sempre di più verso il pino adiacente, sempre di più, finché cadendo vi si abbatté contro, causando anche la sua caduta, che provocò nello stesso modo la caduta del successivo, e quindi dei dieci alberi previsti.

Mentre arrivava dopo neppure cinque minuti, l'Orco non credette ai propri occhi: correndo in linea con la fila degli alberi scelti da Giuvanin, vide in lontananza cadere un solo albero e si stupì che Giuvanin fosse stato capace di abbattere un albero in così poco tempo, ma quando arrivò sul posto e si accorse dei dieci alberi abbattuti per poco non svenne.

In un attimo tutte le sue ricchezze sfumavano, non poteva credere che davvero avrebbe dovuto consegnarle nelle mani di questo ragazzotto all'apparenza così mingherlino e insignificante. Però c'erano di mezzo il Re, i suoi contadini, chiunque oramai nella regione, era al corrente della sfida, come avrebbe potuto rifiutarsi di rispettare i patti?

Preso dalla rabbia per la sconfitta e da mille esitazioni nel riconoscere la vittoria schiacciante di Giuvanin, si rassegnò e gli disse che avrebbe preparato i forzieri per l'indomani e di passare a ritirarli. Giuvanin però non era ancora soddisfatto, fingendosi desolato per il dispiacere della sconfitta provato dall'Orco, gli disse: Orco voglio darti la possibilità di rifarti, accetto l'altra sfida che mi avevi proposto, il lancio della palla di ferro.

All'Orco brillarono gli occhi: ecco l'occasione per rientrare in possesso dei suoi averi. Fingendo di acconsentire a malincuore, fingendo di temere un'altra sconfitta mentre in cuor suo si considerava sicuro della vittoria, disse: Bene allora andiamo a prendere la palla di ferro del cannone.

Quando Giuvanin vide la palla di ferro grande come un cocomero si spaventò, come poteva prenderla per tirarla? Un peso simile, era impossibile per lui sollevarlo. Ma non si perse d'animo. Fece finta di nulla. Si mise dietro la palla di ferro come se si apprestasse a sollevarla, poi, mentre l'Orco osservava le sue mosse, allargò le braccia, si mise le mani a megafono davanti alla bocca, si riempì i polmoni e con quanto fiato aveva in gola cominciò a gridare lentamente, e scandendo ogni sillaba nel dialetto locale:

D' qua e d' là dai monti, d' qua e d' là dai mari,

genta, fat atenzion,

ché Giuvanin Valent 'i sta p'r tirar la pala d' fer

Nel sentire quelle grida così minacciose e immaginando quali disastri avrebbe causato la palla di ferro dove sarebbe caduta, e soprattutto sapendo che di qua e di là dai monti e di qua e di là dai mari ci vivevano sua sorella e altri suoi parenti, l'Orco si preoccupò infinitamente, tanto che chiese subito a Giuvanin di desistere dal lanciare la palla di ferro: Fermo, fermo, per carità! Non lanciare la palla di ferro!

E così gli disse che avrebbe riconosciuto la nuova sconfitta e che l'indomani dopo aver fatto i bagagli, gli avrebbe ceduto senz'altro le chiavi della sua dimora. Nel frattempo gli consegnava i forzieri con le monete d'oro e un mulo per trasportarli.

Giuvanin di buon grado rinunciò a lanciare la palla di ferro, accettò la resa dell'Orco, prese il mulo carico dei forzieri e se ne andò dicendo che sarebbe tornato il giorno dopo.

Strada facendo però Giuvanin non era per niente convinto, si aspettava che l'Orco avrebbe voluto rivedere la sua decisione. Avere perduto d'improvviso tutti i suoi averi ed il suo potere sul territorio, non era di certo facilmente accettabile da lui, e quindi ci si poteva aspettare che la faccenda non fosse ancora del tutto conclusa.

Infatti l'Orco, dopo che Giuvanin se ne fu andato con il suo mulo carico di tesori, rimuginava tutto l'accaduto pensando tra se e se, quanto fosse stato ingenuo a sfidare quel ciabattino così forte. Ma poi, lo era davvero, così forte? Non era ancora del tutto convinto, in verità! Pensò e ripensò, finché prese la decisione: avrebbe inseguito Giuvanin e avrebbe cercato di convincerlo a confrontarsi in un'altra sfida. Montò sul suo cavallo e via all'inseguimento di Giuvanin.

Nel frattempo lo scaltro ciabattino che da molte ore era partito con il mulo ed i forzieri con le monete d'oro, supponendo appunto che l'Orco avrebbe potuto rincorrerlo lungo il cammino, per pretendere una rivalsa, si era fermato nel vialone che costeggiava la boscaglia, aveva nascosto il mulo nel bosco legandolo ad un albero perché non si muovesse da lì, con i forzieri ed un sacco di fieno.

Lui invece si era seduto in bella vista sul ciglio del vialone, in attesa, e quando si accorse del sopraggiungere di gran carriera dell'Orco, si mise i pugni sui fianchi e rivolse lo sguardo al cielo mostrando grande apprensione.

Appena giunto l'Orco smontato da cavallo, si avvicinò a Giuvanin e vedendolo in quell'atteggiamento lo apostrofò: Che succede? Cosa cerchi per aria? Dov'è il mulo con il mio tesoro?

Quel 'mio tesoro' persuase Giuvanin che l'Orco non era ancora per niente convinto della sua sconfitta, ma sempre con un occhio all'Orco ed uno al cielo, rispose: Ma non mi dir niente! Mi hai dato un mulo incredibilmente testardo! Non aveva in pancia di camminare! Ci ho impiegato ore per arrivare fin qua! A forza di spronarlo e di spingerlo, mi sono stancato! Poi non ce l'ho più fatta a sopportarlo! Ho perso la pazienza, gli ho sferrato un calcio nel deretano! Ma proprio un calcio ben dato, perché l'ho scagliato per aria un'ora fa e ancora non ritorna giù!

L'Orco rimase ammutolito, non seppe come reagire a questa nuova notizia che non si aspettava. Non seppe far altro che pararsi gli occhi dalla luce e cercare anche lui nel cielo terso il mulo volante che ancora non tornava a terra.

Giuvanin che era però vigile alle sue mosse volle rincarare la dose, e disse: Ah! Dimenticavo, già che sei venuto, devo dirti che poco fa è passata la carrozza del Re con la sua scorta, ed il Re mi ha confermato che domani sera verrà alla festa che darò al palazzo che mi sono guadagnato, per cui ti prego domani mattina cerca di liberarmi il palazzo prima di mezzogiorno! Va bene?

L'Orco non seppe far altro che annuire, rimontò sul suo cavallo dicendo a Giuvanin: A domani! E si allontanò di gran carriera.

Giuvanin riprese il suo mulo e si avviò verso la sua misera casetta dove la sua mamma che aveva sentito le voci della sfida di suo figlio con l'Orco, lo aspettava in grande apprensione non sapendo esattamente cosa stesse accadendo.

Il giorno dopo, Giuvanin uscito di casa, ricevette i complimenti dai suoi compaesani che ormai erano al corrente dell'audacia dimostrata nello sfidare il temuto Orco. Poi a mezzogiorno, durante il tragitto verso le sue nuove proprietà incontrò i contadini dei campi ed i lavoranti delle fattorie che lo salutavano ben contenti di avere un nuovo padrone così forte e saggio. Giunto al palazzotto sulla collina, il portone si spalancò e lo accolse la vecchia inserviente dell'Orco che nel frattempo si era lavata e pettinata per l'occasione, ma dell'Orco neppure l'ombra. Allora Giuvanin le ordinò di farsi aiutare dalle contadine e di preparare un pranzo per mille invitati, ché sarebbero venuti il Re, la Regina, la Principessa, i suoi compaesani e tutti i contadini ed i lavoranti dei campi e delle fattorie.

E così fu! Fu una festa indimenticabile! Una cena favolosa! Tutti rimasero soddisfatti ed entusiasti di Giuvanin! Mangiarono, cantarono, fecero musica e ballarono!

Finita la festa tutti tornarono alle loro case, erano felici che l'Orco con le sue prepotenze non fosse più il padrone di quelle terre!

Il Re e la Regina che avevano tanto apprezzato il coraggio e l'astuzia di Giuvanin furono ben felici di concedergli la mano della loro figlia, la Principessa. Così i due giovani si sposarono, fecero due o tre marmocchi e vissero tutti insieme felici e contenti!

Frola 'n qua, frola 'n là ecc'la là ca s'n va a cà'!

Stretta la foglia, larga la via, dite la vostra che ho detto la mia!